Addio alle Fiere come le conoscevamo

Il passaggio a vuoto dei vari eventi fieristici a causa del Covid-19 potrebbe essere quello che produrrà la definitiva estinzione di questo modello. Meno fiere tradizionali, più spazio per la vitalità e gli eventi destinati al pubblico, meglio se aperti ad una dimensione esperienziale.

La fase acuta dell’emergenza potrà essersi conclusa, ma gli effetti della pandemia di COVID-19 nel nostro mondo si vedranno nel presente e soprattutto nel futuro prossimo. E anche il mondo dello sport non sarà esente da importanti evoluzioni.

In particolare, in Vitesse siamo attivi da quasi 30 anni nel mondo del ciclismo in veste di Ufficio Stampa, PR e Media Relations, organizzatori di eventi e digital strategist. Questa conoscenza profonda del settore di riferimento ci ha spinto a delle riflessioni su come il settore delle due ruote stia cambiando – visto dalle varie angolazioni – e abbiamo individuato 10 trend importanti che potrebbero consolidarsi nei prossimi mesi ed anni.

Eccoci ora arrivati alla sesto episodio:

Addio alle Fiere come le conoscevamo

Ci sarà chi obietterà: il trend era in essere ben prima del Covid. Verissimo. Ma il passaggio a vuoto dei vari eventi fieristici a causa del Covid-19 potrebbe essere quello che produrrà la definitiva estinzione del modello di fiera tradizionale nel mondo del ciclismo – e forse anche di quello dell’outdoor, visti i magrissimi risultati di soddisfazione delle ultime edizioni di ISPO.

Da anni aziende ed operatori lamentano l’assenza dei player di primissimo piano, sempre meno stampa, e soprattutto sempre meno novità: chi “fa” il mercato, nel 90% dei casi sceglie di creare dei propri eventi in cui coinvolgere gli interlocutori target, svincolandosi quindi da stagioni e “periodi” di lancio che ormai sono anacronistici in qualsiasi settore. Prova ne sia il fatto che il muro inizi a sgretolarsi persino nel mondo della moda, così affezionato alle sue stagioni e ai suoi meeting canonici: marchi come Yves Saint-Laurent e Gucci si stanno sganciando dal calendario degli show di moda per attuare una gestione più sostenibile e riappropriarsi della rispettiva programmazione. Sic.

Le fiere costano troppo, provocano troppi spostamenti (anche da un punto di vista della sensibilità ambientale), e non generano valore. Allora perché c’era chi continuava ad andarci?

Un primo argomento, molto realistico, è quello che non tutte le aziende hanno il budget (e spesso la capacità, sebbene venga meno in argomento) di creare uno o più propri eventi di presentazione, in-house o meno, per rete vendite, distributori, stampa. In questo senso, per onerose che siano, le fiere richiedono un esborso e un tipo di “effort” già noto, e mettono l’azienda nella posizione di intercettare un pubblico di potenziali interlocutori interessati che magari non sarebbe stata in grado di creare in autonomia.

Un secondo argomento, che non riguarda solo le aziende, si basa sul loro valore di networking. E in effetti è difficile negare che in fiera sia possibile incontrare in 2/3 giorni persone che, viceversa, avresti dovuto ricercare ai diversi angoli d’Europa. Questo vale per tutte le categorie: stampa, operatori, responsabili marketing, e naturalmente i negozianti, che nel modello originario di fiera sarebbero la controparte principale.

Quanto sopra si scontra però, oggi, con delle realtà un po’ diverse. Anzitutto, ce lo siamo detti, l’evoluzione del retail va sempre più verso l’online a scapito del fisico, ma soprattutto della vendita diretta da parte delle aziende, che sia tramite canali proprietari o marketplace. Negli ultimi anni le fiere hanno registrato una frequentazione sempre più ridotta da parte dei negozianti, e soprattutto non è più in fiera che avvengono la gran parte degli ordini: questa funzione di incontro, evidentemente, non è più percepita come strutturale.

Inoltre, se c’è una cosa che questa pandemia ci ha insegnato è che non è necessario essere nello stesso luogo per incontrarsi. Esistono mezzi e strumenti per conoscersi e farsi conoscere anche da remoto, e la possibilità di rileggere i propri spazi espositivi in forma digitale, conservando comunque un carattere di esclusività, ma abbattendo il fattore tempo: in fin dei conti, il mio showroom digitale può essere aperto tutto l’anno, giorno e notte.

Dove sta il “ma”? Eccolo: in questo diverso sistema, nessuno potrà più accontentarsi di acquistare il ticket per la fiera, prenotare gli alberghi e scopiazzare una grafica per lo stand, per pensare di avere un posto nella testa di chi acquista. Serve una strategia e una visione, e serve tutto l’anno. Una strategia che parta dal presidio dei canali digitali, dalla creazione e messa a punto di piattaforme web intelligenti e realmente performanti, da un’attività di content marketing che sia pensata, curata e implementata con competenza. Chi non è in grado di competere su questo fronte è destinato all’irrilevanza: in un mercato così affollato, le conseguenze sono facilmente intuibili.

Strategia e competenza indispensabili anche nel lavoro media, sia sui canali proprietari che nelle relazioni con la stampa. La partita della “social proof” è più aperta e cruciale che mai per guadagnarsi un cono di luce rispetto ai consumatori. È necessario capire il consumatore, prima ancora di attivare processi di veicolazione di informazioni e messaggi, considerando che l’utente finale è sempre più abituato ad essere raggiunto dai contenuti anziché andarli a cercare.

Se questo è quello che prevediamo per le fiere “B2B”, sicuramente c’è spazio e vitalità per gli eventi destinati al pubblico, meglio se aperti ad una dimensione esperienziale: più lean, più economici, e soprattutto pensati addosso al consumatore. Che, alla fine, è quello che sceglie – e sceglie anche sulla base del rapporto (percepito) con le aziende.

Nel blog precedente abbiamo parlato di: 

Urban cycling come categoria merceologica

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